lunedì 30 novembre 2009

RAISED FIST - Veil Of Ignorance

Burning Heart - 2009
Hardcore/Punk (d'assalto
)
Da 1 a 10: la legge sono loro (8)

Articolo di: cece

Siccome i Raised Fist non hanno bisogno di presentazioni mi limito a scrivere, per dover di cronaca, che questo quintetto svedese è sicuramente il gruppo europeo più rappresentativo e storico della scena hardcore mondiale e, ve l’assicuro, c’è da esserne fieri. Esperti sul campo, grazie ad un percorso che ebbe inizio nel lontano 1993, i Raised Fist, forti di un solido contratto con la connazionale Burning Heart Records, giungono oggi al settimo album innescando, per l’occasione, una vera e propria bomba Hardcore-Punk capace, una volta esplosa, di offuscare persino il loro passato (non me ne vogliano i fan più datati).
“Veil Of Ignorance” infatti è un vero e proprio assalto alla musica, duro, fiero, viscerale, potente e aggressivo.
E’ incredibile come questa band che oserei definire immortale riesca, dopo tanti anni, addirittura a rafforzarsi e ad acquisire maggiore forza e determinazione, tali da poter ingannare il tempo migliorando la loro musica e le loro prestazioni.
Le tredici canzoni di “Veil Of Ignorance” sono tutte, e ripeto tutte, delle sfuriate devastanti e micidiali a partire dal singolo iniziale “Friends & Traitors” passando per momenti più riflessivi “Wounds” e “My Last Day”, mantenendo, fino all’outro conclusiva, un livello qualitativo altissimo, con tanto di rabbia e passione a secchiate.
In un tempo in cui l’hardcore sembra aver smarrito la sua strada, i Raised Fist decidono giustamente di dargli le più chiare indicazioni dettando quella che è sicuramente la miglior guida del 2009.

Continua a leggere...

venerdì 27 novembre 2009

THE 69 EYES - Intervista Col Vampiro

Intervista a: Jyrki 69 (voce)

Di: Martina d'Errico  

I vampiri finlandesi sono tornati con un disco che torna alle loro origini rock'n'roll, mischiandole con l'esperienza gotica della band, producendo un mix letale e orecchiabile. In attesa di vederli dal vivo anche in Italia, e mentre ascoltate l'ultimo album, gustatevi questa intervista al vocalist Jyrki "69" Linnankivi.


1.Possiamo dire che con "Back In Blood" state aprendo una nuova era, dopo quella conclusasi col box set?

Precisamente! In generale il suono e il sangue rimangono gli stessi, ma c'è qualche forte influenza losangelina per farli rockeggiare di più!

2.Di quali argomenti parlate in questo album?

E' tutto riguardante i vampiri. Cos'altro c'è di interessante al mondo?

3.Da dove viene la vostra ispirazione? Che metodo utilizzate per scrivere le canzoni?

All'inizio, quando scrivevo le prime canzoni con i testi incentrati sui vampiri, mi sono accorto che ero totalmente preso da questo tema, così mi sono circondato di tutte le novità concernenti queste creature della notte - per aggiornarmi!

4.Avete appena firmato con la Nuclear Blast. Come mai avete scelto questa casa discografica e come sta andando la collaborazione?

La Nuclear Blast ha fatto uscire il nostro box set, "Goth'n'Roll", e ha fatto un grandissimo lavoro nel promuoverlo. "Promozione" è la parola chiave di questi tempi; la musica è quella che parla e dimostra le tue capacità, ma le persone hanno bisogno di sapere che tu esisti!
La Nuclear Blast ci ha rimessi in primo piano.


5.Usate molto Internet per comunicare coi vostri fans. E' utile per ricevere riscontri sul vostro lavoro e su quello che la gente ne pensa?

Onestamente cerco di evitare la rete dato che non ho il tempo che dovrei dedicarle. Immagino che dovrei aggiornare spesso il blog ma non ne ho tempo - vivo e faccio rock nel mondo reale. I fan sono sempre affamati di notizie, così come Renfield lo è di scarafaggi e mosche (naturalmente citazione da "Dracula" di Bram Stoker - nda) e facciamo del nostro meglio per tenerli aggiornati. Facciamo questo per i nostri fan, sono loro i nostri capi, ma per mantenere tutto interessante ed eccitante vogliamo sorprenderli con cose nuove ogni volta. Quindi vederli ai nostri spettacoli o comprare i nostri dischi è il modo per comunicare al livello più alto.

6.Cosa puoi dirci di un prossimo tour? Vi vedremo dal vivo?

Andremo in tour prima negli Stati Uniti, quindi in Finlandia e infine in Europa. Non vediamo l'ora di suonare dal vivo per voi, gente!

7.Jyrki, collabori ancora con l'UNICEF? Cosa stai facendo per loro al momento?

Sì, sono un Goodwill Vampire! Il prossimo impegno sarà in Novembre, visiterò l'Habbo Hotel per l'evento dell'UNICEF. Ci vediamo là!

8.I vampiri hanno sempre avuto un ruolo molto importante nella vostra musica e immagine. Cosa ne pensi di film come "Twilight" o "Lasciami Entrare"?

Mi piacciono entrambi! Rappresentano una nuova generazione di esseri con le zanne. I 69 Eyes ovviamente devono di più alla generazione di Christopher Lee e degli anni '60 e '70, ma abbiamo anche bisogno di sangue fresco, così la nuova scena è la benvenuta!

9.Dicci qualcosa sul regista e la storia del vostro nuovo video, "Dead Girls Are Easy".

Il video è stato girato dal solo e unico Bam Margera. Ha fatto il video "Lost Boys" con noi cinque anni fa, così questo è stato come un seguito. La trama è molto anni '80, rifacendosi sia ai video degli ZZ Top che a quelli di Michael Jackson - puro divertimento!
L'abbiamo girato in un weekend molto fico a West Chester (PA, USA) e le ragazze morte si sono rivelate molto belle e facili ;-)


Grazie per aver risposto alle nostre domande.
Blessed Be!


Continua a leggere...

RESURRECTURIS – Non Voglio Morire


Casket - 2009
Morte Metal
Da 1 a 10: Sa il fatto suo (8)
Articolo di: Michele Marinel

Lo ammetto, non avevo mai incontrato sulla mia strada i Reurrecturis, e leggere nelle note biografiche che questa sarebbe una delle band capostipiti del death italiano mi aveva fatto alzare un sopracciglio per la perplessità. Sarà che la scena death italiana, pur vantando band di ottima caratura, non ha mai avuto più di tanti riscontri? Chissà.

Veniamo ad ogni modo all'album. Il disco si apre come una bordata death metal d'altri tempi, di quel death metal duro e coriaceo, ma anche grasso e a tratti melodico, che ha fatto della scuola europea un capitolo a se stante rispetto ai padri americani.
Riff quadrati, veloci e senza fronzoli lasciano spazio a partiture solistiche melodiche e di buon gusto. Niente funambolici virtuosismi da primi della classe, ma di classe è quel tocco modesto eppure curato che i Resurrecturis hanno, e tante altre band no.
Sorprendono e piacciono i brani intermedi del disco che aprono a influenze diverse, alla struttura verso-growl/ritornello-pulito che rimanda al moderno metalcore (ma filtrato attraverso una sensibilità da vecchia scuola) a svisate dal sapore marcatamente thrash che riprende alcuni elementi che hanno caratterizzato il sound dei Metallica dei tempi d'oro. Un sound ruvido ma allo stesso tempo studiato, che si apre e si chiude su se stesso quasi come se respirasse, un esempio di come si possa fare death metal con gli orizzonti aperti ma senza vendersi o scopiazzare, rifacendosi a chi c'è stato prima ma mettendoci del proprio, che è quello che fa la differenza.Certo la voce di Carlo Strappa non è eccelsa, ma fa il suo degno lavoro nelle parti più aggressive mentre proprio certe imperfezioni rendono più gustose e meno scontate le parti pulite. La produzione è buona ma non stratosferica ma, secondo il modesto parere del sottoscritto, questo è un punto a favore quando si parla di metal estremo, e non il contrario.
In conclusione Non Voglio Morire è un disco maturo, godibile ma soprattuto vario ed interessante. Ottima prova.

Continua a leggere...

giovedì 26 novembre 2009

SETTLE - At Home We Are Tourists

Epitaph - 2009
Indie-Rock (Elettroshock)
Da 1 a 10: Allacciate le Cinture (6)

Articolo di: cece

Quando ci si imbatte in gruppi come i Settle, sempre in bilico fra due o più generi, sperimentali all’inverosimile e maturi sotto ogni punto di vista, non si capisce mai con chi si abbia realmente a che fare: geni incompresi o semplicemente musicisti confusi? In questo caso la risposta, tanto per confonderci ancora di più le idee, sta nel mezzo.

Con “At Home We Are Tourists”, debutto sotto Epitaph Records nonché secondo album sulla distanza dopo un anonimo disco autoprodotto, i quattro ragazzi della Pennsylvania si avviano ad una carriera fatta di sperimentazione, passione, innovazione e tanto sano Rock’n’Roll.
Comprendere un disco come “AHWAT” significa fare un salto in dietro nel tempo di una ventina d’anni circa, in quella scena underground praticamente concepita per soli nerd, che fu parte integrante storia dell’Emo di prima ondata (Q And Not U, Weezer), per poi fare subito un salto ai giorni nostri giustificando così l’uso del synth e di tutta la parte Indie-Rock (ultimi Brandtson, Franz Ferdinand).
Se è impossibile catalogare i Settle come genere è altrettanto facile attribuire loro le più svariate etichette, con loro ci si può tranquillamente sbizzarrire quindi, togliendomi una soddisfazione da critico/recensore, gli affibbio subito il mio elenco definendoli Alternative Indie-Rock/Emo-Punk/Elektro-Dance Pop e, credetemi, sono stato abbastanza sintetico.
In conclusione ritengo opportuno, vista la facilità con cui ci si può perdere durante l’ascolto dell’album, segnalare quelli che secondo me sono gli episodi più significativi, anche se il parere personale in questa occasione potrebbe indicarvi la strada più complicata: inizierei con la più “facile” ed immediata “Murder” per poi proseguire con “Affinity For My Hometown”, “I Saw An Inferno Once”, concludendo con l’elettronica “Naked At A Family Function”. Per chiunque avesse voglia di provare qualcosa di veramente alternativo consiglio invece l’intero disco “At Home We Are Tourists”, buon viaggio.

Continua a leggere...

VEHEMENT – All That's Behind


My Kingdom - 2009
Thrashone testamentario
Da 1 a 10: La vecchia scuola ha sempre ragione (7)
Articolo di: Michele Marinel

Pare che la nostrana My Kingdom si sia data una bella scossa e dopo gli ottimi Symbolic, pubblica anche i veronesi Vehement.
Il verbo sono di cui si fanno alfieri i nostri è quello del thrash metal, il cui revival non è mai stato così in voga come in questo periodo. Un'operazione ruffiana allora? No, niente affatto.

Dai solchi di questo debutto trasuda onestà e convinzione e un gusto per l'impatto violento ma ragionato figlio di lunghi ascolti di thrash del periodo a cavallo tra gli 80 e i 90. In particolare ascoltando i pezzi di questo All That's Behid tornano in mente i Testament vecchia maniera magari non quelli più funambolici ed eclettici, ma sicuramente la band di Chuck Billy è uno dei principali riferimenti dei Vehement.
La band veronese comunque riesce a delineare una propria personalità, seppur limitata dai canoni di un genere inteso nella sua maniera più tradizionale. Ottimi riff si associano a buoni assoli, sostenuti da una sezione ritmica compatta e precisa. Andrebbe invece migliorato il cantato, davvero sotto tono. Un album musicalmente ben suonato e ben concepito, in cui le partecipazioni di svariati guest sono dei cameo che impreziosiscono l'opera e non dei meri riempitivi come capita troppo spesso.
Un plauso va alle due asce, Filippo Buzzi e Davide Girardi, la cui intesa è pressochè perfetta.
In questo disco troverete tutto quello che potete aspettarvi: stop and go, rallentamenti ed improvvise accelerazioni, violente bordate ed aperture melodiche. Certo forse non tantissime sorprese, ma un sacco di buon thrash.

Continua a leggere...

mercoledì 25 novembre 2009

W.E.T. - Wet


Frontiers - 2009
AOR
Da 1 a 10: Commento (6)
Articolo di: Maurizio Mazzarella

Questi W.E.T. non sono altro che un progetto studiato del tutto a tavolino e che uscisce tre grossi artisti del calibro di Robert Sall dei Work Of Art, Erik Martensson degli Eclipse ed il noto Jeff Scott Soto meglio conosciuto per la sua militanza nei Talisman ed ancor di più per il suo passato con il mitico Malmsteen.

Essendo quindi questo un prodotto commerciale, a livello di sonorità vedendo i musicisti coinvolti, viene facile capire a cosa ci troviamo di fronte, ovvero ad un disco di puro e semplice hard rock di stampo completamente melodico e dalle tinte A.O.R., con trame scontate e facilmente prevedibili. Questo "Wet", è quindi un disco dai contenuti semplici, che gode di un buon impatto e che risulta ampiamente facile da assimilare, tanto che basta un primo ascolto per comprenderlo fino in fondo. I contentuti tecnici sono assolutamente egregi e la produzione per dischi come questo, non può che essere impeccabile, puntando su un suono pulito ed anche all'avanguardia. A livello di componimenti, le influenze sono impostate su band come Journey, Whitesnake ed anche Survivor soprattuto nella parti più commerciali. Le canzoni nel complesso sono buone e giovano della grande professionalità dei musicisti coinvolti, anche se come in ogni disco ci sono episodi che prevalgono su altri, "Wet" infatti parte bene, con le prime canzoni che si dimostrano di un livello che va ben oltre la media generale, ma successivamente si perde nella monotonia del già sentito, perché alla fine di prodotti come questi in giro ce ne sono un'eternità e fondamentalmente i W.E.T. non scoprono nulla di nuovo. Disco quindi consigliato esclusivamante ai fruitori di queste sonorità.

Continua a leggere...

martedì 24 novembre 2009

RUSSIAN CIRCLES - Geneva

Suicide Squeeze - 2009
Post-rock, Post-metal, Progressive
Da 1 a 10: (7)
Articolo di: Enrico De Domeneghi

Signori, siamo seri. Affacciarsi a questi suoni comporta oggi un grosso rischio. Il post-metal -e rimaniamo il più larghi possibile sulla definizione-, rasenta ormai la saturazione, e il pericolo 'Formula', l'omologazione dilagante, sono dietro l'angolo. Nel panorama attuale le proposte di una certa rilevanza stanno rivestendo un ruolo sempre minore -vedi gli ultimi Callisto- e questo è ovvio indice di un genere musicale prossimo alla stagnazione. Quando anche le band apristrada si inzaccherano è facile notare come ogni schizzo prodotto non sia altro che lo stesso fango sotto altro nome. Le 'nuove band'. Il solito vecchio fango.

Al lato opposto, quello di chi sa ancora farsi notare, ci sono tra gli altri i Russian Circles. Cugini dei Pelican non solo geograficamente (entrambe le band sono di stanza a Chicago, nda), anche i nostri puntano tutto sulle lunghe progressioni strumentali, tenendo comunque alta la bandiera della ricerca sonora. Le tinte offerte in 'Geneva' sono piuttosto varie, a cavallo tra due coordinate più o meno riconoscibili: quella più post-core di Isis e Cult Of Luna, l'altra vicina al post rock più attuale, quello di Explosion In The Sky, Mogwai e God Is An Austronaut. I tre, che annoverano tra le fila certo Brian Cook, un ex-Botch, hanno aperto ai Tool nel tour inglese di due anni fa, e arrivano da una buona gavetta nel sottobosco afono di Chicago. Anche i Dakota/Dakota, infatti, band in cui militavano precedentemente Mike Sullivan e David Turncrantz, erano un collettivo fieramente privo di voce.
Reduci dal buon 'Enter', la band dell'Illinois dimostra buona scrittura e profondità espressiva, mettendo assieme una scaletta dinamica e intelligente, che fa leva su elementi consolidati nel genere (intrecci d' archi, crescendo-nda), quanto su una personalità ben marcata. Chitarre in tapping e inserti di fiati sono cose che non ti aspetteresti dai Russian Circles, almeno non dopo essere passato per brani come 'Philos' o 'Melee', forse le due migliori prove per il lato più atmosferico ed introspettivo del gruppo. Molto bello il rallentamento ai 3 minuti e mezzo del secondo brano, con un potente riff archi-chitarre a guidare che riporta alla mente i Sigur Rós. E' però la sezione ritmica a farla da padrone in altri pezzi, con un basso potente dagli ottimi suoni e una batterria che spesso perde il ruolo di strumento di accompagnamento per assumere la centralità del brano. Da 'Malko', ad esempio, esce tutta la ruvidezza dell'influenza sludge a stelle e striscie, la stessa che si respira a livello di suoni tesi e sotterranei nell'opener 'Fathom'.

Il fatto è che all'ascoltatore viene in realtà chiesto di comprendere la prospettiva complessiva del tessuto sonoro di 'Geneva' che parte ma non finisce nei singoli mood che i musicisti attraversano. Per poterne intravedere la filigrana, l'unità nel composito e viceversa, come in un Mandhala buddhista. E forse quello che più colpisce è che, pur privi di vocals e consci di aver scelto a priori la via dell'incomunicabilità, i Russian Circles creano comunque sostanza e contenuti. Il linguaggio sarà traducibile solo da una prospettiva soggettiva, certo, sarà limitato al punto di vista dell''io-che-ascolta', ma quello che si gusta nel limbo atemporale che il disco crea è sicuramente nitido e convincente.

Continua a leggere...

lunedì 23 novembre 2009

SING IT LOUD - Come Around

Epitaph - 2008
Pop-Punk (trallallà)
Da 1 a 10: Easy Listening (6)

Articolo di: cece

Quando a fine 2008 lessi la notizia che la Epitaph Records arruolò tra le sue fila una pop-punk band, subito mi fiondai nella loro pagina myspace per sbirciare e capire chi fossero di preciso i Sing It Loud e, nonostante il piccolo inconveniente che per ascoltare qualcosa del loro repertorio bisognasse aspettare qualche settimana (erano presenti solo alcune demo), compresi subito, dal layout, dai vari loghi e soprattutto dalle foto del gruppo, ciò che questo quintetto del Minnesota aveva in serbo per noi.

Colori sgargianti, scritte a caratteri cubitali, fluorescenti e rotondeggianti contornavano le foto patinate di cinque teen-agers con tutti i cliché del momento: dal capellone belloccio alla voce, al tastierista di colore con occhiale fashion (vedi Plain White T’s e Huston Calls). Attivi solo dal 2007 e con appena una decina di show alle spalle, nemmeno a loro pareva vero di poter realizzare un album con l’aiuto del produttore-chitarrista dei Motion City Soundtrack Josh Cain e con Mark Trombino in fase di mixaggio; l’esito di questa operazione, battezzata “Come Around” viene alla luce nel settembre del 2008 e risulta essere, come da copione, una spensierata e poppeggiante collana di canzoni ultra-catchy e di facile apprendimento. Il disco si lascia ascoltare piacevolmente donando, senza troppe pretese, una ricca dose di ritornelli power-pop di quelli impossibili da cancellare dai ricordi (su tutte la titled track “Come Around”), di immancabili coretti melodici e con l’aggiunta dell’inserto vocale di Alex Gaskarth degli All Time Low in “No One Can Touch Us”. A mio parere “Come Around” è un album da apprezzare soprattutto per la sua simpatia e per la produzione più che discreta, si consiglia inoltre di resistere fino ad almeno fine maggio per poterne sfruttare in pieno le caratteristiche.

Continua a leggere...

SVARTBY - Riv, Hugg Och Bit



Phono Records - 2009
Symphonic/Folk Metal (fra streghe e folletti)
Da 1 a 10: Passo indietro, spento (5)
Articolo di: Simone "M1" Landi

Dopo un disco d'esordio simpatico e divertente ("Kom I Min Kittel") mi aspettavo decisamente di più dagli Svartby e dal loro symphonic/folk metal in chiave fantasy. Abbiamo ancora per le mani corse sfrenate guidate dalla batteria di Fenrir, imprescindibili tastiere giocose e ritmi danzerecci ma il complesso non colpisce come la prima volta ed anzi annoia dopo non molto.


La ricetta compositiva infatti raramente si fa degna di nota ("Solens Ljus"), talvolta addirittura caotica ("Trollkarlar Av Dvärgfolk") e non è sufficiente "mostrare i denti" pestando duro con un riffing più tosto ("Kvävande Gruvor") o con un growl profondo per colpire il bersaglio. I quattordici pezzi scorrono così uno dopo l'altro senza lasciare il segno cavalcando melodie già note o semplici atmosfere folcloristiche.
Se nel caso di una prima prova in studio si è sempre più indulgenti per quanto riguarda errori e sbavature, questa volta è impossibile soprassedere sulla considerazione che "Riv, Hugg Och Bit" segni un arresto deciso del cammino degli Svartby, il cui rischio maggiore è quello di rimanere impantanati fra la miriade di uscite del mercato di un filone ormai "sverginato".

Continua a leggere...

mercoledì 18 novembre 2009


EISBRECHER – Antikörper
AFM – 2009
Electro-industrial (Pompatissimo!)

Da 1 a 10: I crucchi colpiscono nel segno e affondano! (8,5)
Andrea “Psalm 69” Valeri

Probabilmente ci troviamo di fronte ad una delle rivelazioni degli ultimi tempi.
Un gruppo che giustifica appieno la necessità di ascoltare la musica al massimo volume possibile.
Già dal precedente “Sünde”, Eisbrecher era diventato sinonimo di adrenalinica violenza bruta ben coniugata ad un alto tasso di elettronico testosterone teutonico.
E’un gusto tutto germanico quello di usare voci baritonali, distorte, su dure basi che volteggiano tra il marziale e l’ebm più potente. Senza stare a scomodare i Rammstein, qui riusciamo ad intravedere un massiccio uso di synth a supporto di un lavoro chitarristico teso ed efficace, proiettato verso robuste strutture percussive.
Da “Adrenalin” alla title track, passando per la stupenda ballata “Ohne Dich” e la cazzuta “Phosphor”, non si ha un attimo di respiro e l’album rivela tutto il suo valore senza evidenti cadute di stile.
Sconosciuti ai più, meriterebbero di avere più spazio tra i cultori di certo industrial metal speziato da un alto tasso d’elettronica.

Continua a leggere...

martedì 17 novembre 2009

Skunk Anansie 15.11.2009 Milano, PalaSharp



SKUNK ANANSIE @ PalaSharp Milano 15.11.2009

Articolo e foto di F. Paolo Micciche'

Ci sono voluti quasi dieci anni ed un Greatest Hits per convincerli a rimettersi assieme e tornare a calcare i palchi con una scarica di energia mista a momenti di dolcezza e rabbiosa malinconia, e per fortuna le aspettative di quanti hanno assicurato il sold-out al PalaSharp non sono andate deluse, nonostante un paio di abbassamenti di tensione che hanno reso muti gli strumenti e gli amplificatori.
Skin si presenta avvolta da un manto di strisce argentate, come fosse il ragno Anansi, e inizia una sorta di danza tribale che la accompagna per tutta la durata della polemica "Selling Jesus", seguita dalle urla maledette di "Charlie Big Potato": inutile dire che il pit milanese è una combat-zone che pesta duro come le pelli di Mark, o il basso di Cass, o la chitarra di Ace, e la bomba sonora rallenta solo per il nuovo singolo "Because of You" e la dolce "Secretly". Un pezzo dopo l'altro la scaletta ricalca quella di "Smashes & Trashes" e la folla non manca di urlare ogni singola strofa, e nonostante i problemi tecnici che fanno saltare un paio di volte l'elettricità - il primo su "Twisted (Everyday hurts)" - la frontman, da perfetta mattatrice della scena, scavalca l'imbarazzo e non si perde d'animo, continuando a tenere il tempo sino a quando la musica non ritorna a rimbombare nelle casse, e tuffandosi tra il pubblico attonito in uno "stage diving" degno dei migliori animali da palco. Una performance a dir poco perfetta che non lascia un attimo di respiro, tra la violenza di pezzi come "On My Hotel T.V." e "Tear The Place Up", e la morbidezza sensuale della conosciutissima hit "Hedonism" e l'inedita "Squander", un quartetto perfetto, la folla galvanizzata: cosa chiedere di più alla "amazing Skin", così come si è presentata? Assolutamente nulla, quando il ringraziamento è "I love you Milano, see you next year".

00. Intro (Yes It's Fucking Political Prelude)

01. Selling Jesus
02. Charlie Big Potato
03. Because Of You
04. Secretly

05. 100 Ways To Be A Good Girl

06. I Can Dream

07. I Don't Wanna Kill You

08. Weak

09. Brazen (Weep)

10. Twisted (Everyday Hurts)

11. Cheap Honesty

12. On My Hotel T.V.

13. Tear The Place Up

14. The Skank Heads
ENCORES

15. Hedonism (Just Because You Feel Good)

16. Squander

17. Little Baby Swastikkka

ENCORE

18. You'll Follow Me Down


le foto le trovate qui: http://www.tinyurl.com/skunkamilano


Continua a leggere...

lunedì 16 novembre 2009

PITBULL TERRORIST - C.I.A.



Nuclear Blast - 2009
Grindcore (cattiveria allo stato puro)
Da 1 a 10: pericoloso (7,5)
Articolo di: Davide Pozzi

Debut-album per i Pitbull Terrorist, band praticamente sconosciuta, specialmente per quello che riguarda le origini dei singoli componenti che a quanto cita la bio ufficiale provengono da diversi luoghi e si sono ritrovati in nord Europa per dare vita al loro terror-thrash. Il sound dei Pitbull Terrorist è un devastante mix di grind, hardcore e thrash metal, suonato con grande cattiveria ed eseguito con estrema velocità.

“C.I.A.” (Contraband International Audio) questo il nome del disco, presenta al suo interno tutte le caratteristiche dei generi sopra citati; velocità, aggressività, immediatezza dunque sono le basi sulle quali si fonda e si sviluppa l’intera proposta musicale della band, il tutto impreziosito da testi che affrontano temi sociali. Non molto differenti da centinaia di band che propongono i medesimi suoni, i Pitbull Terrorist dimostrano certamente una notevole predisposizione verso il massacro musicale; pesanti riff hardcore-thrash creano un muro sonoro notevole, il cantato in pieno stile grind poi fa il resto; che diverrà senza ombra di dubbio più esaltante in fase live, situazione ideale per battagliare alla grande supportati da simili mazzate. Difficile apprezzarli e addirittura sopportarli se non si amano o se almeno non si ha parecchia confidenza con i generi citati in precedenza, situazione contraria per chi mastica sound simili quotidianamente, un avviso per questi ultimi: non ci sarà via di scampo.

Continua a leggere...

PERPETUAL FIRE - Invisible


Autoproduzione - 2009
Power Metal (in grande stile)
Da 1 a 10: Il fuoco del power (9)
Articolo di: Maurizio Mazzarella

L'ostilità del mercato discografico, ha indotto i Perpetual Fire ad optare per una decisione assolutamente drastica, ovvero quella di distribuire il loro secondo lavoro in studio non attraverso i classici canoni del settore, ma tramite il download gratuito dal proprio sito internet.

Una scelta che a primo impatto può sembrare folle, ma che nella realtà non lo è, perché al centro di tutto c'è la musica e l'arte non ha prezzo. Il problema di fondo però, è che ascoltando le sedici canzoni contenute su "Invisible", il primo pensiero che viene alla mente, è che non sono i Perpetual Fire i folli, bensì i discografici che non hanno capito il palpabile spessore artistico del disco ed il talento dei singoli componenti della band. Siamo nel campo del power metal, i Perpetual Fire mostrano diversi punti in comune con la scena scandinava, con richiami spesso evidenti agli Stratovarius ad esempio, ma si attraversano anche territori più classici, come il Malmsteen dei tempi d'oro, oppure i Rainbow con il mitico "Dio" alla voce. "Invisible" è un disco versatile, dinamico, ben prodotto e di grande personalità, che scorre in modo fluido lasciandosi apprezzare dalla prima all'ultima nota, non risultando mai monotono, nel senso che come tutti i dischi del settore ci sono brani molto veloci ed incisivi, ma nel caso dei Perpetual Fire, si spazia anche verso canzoni molto intense, passionali e dalla fortissima ispirazione, come se la poesia d'incanto si tramutasse in musica estatica e seducente. Si può quindi restare contagiati dalla strabiliante "Kissing In The Shadows" e farsi coinvolgere dall'introspettiva "April's Blood", sognando con la profonda "In The Cage", raggiungendo poi l'estasi con quella piccola perla musicale intitolata "Eternity", in assoluto il momento più elevato di tutto l'album. Le ultime tre canzoni poi, sono delle tracce bonus pubblicate precedentemente in una compilation e riproposte ora in "Invisible" ed anche in questo caso siamo di fronte a tre autentiche opere d'arte, ascoltate per esempio "Alien" e rimarrete stupiti dalla straordinaria qualità di questo pezzo. Da evidenziare inoltre, l'ottimo lavoro del chitarrista Steve Volta, uno dei migliori talenti della nostra bella Italia, autore di assoli raffinati e penetranti. Questo disco è un autentico capolavoro e può essere vostro senza grossi sforzi, andate su www.perpetualfire.net e fatelo vostro. Non ve ne pentirete.

Continua a leggere...

giovedì 12 novembre 2009

LEFT ALONE - Left Alone

Hellcat - 2009
Punk (molto punk)
Da 1 a 10: old school (5)

Articolo di: Cece

In questo universo è rimasta una sola etichetta a dedicarsi anima e corpo di Punk, e per Punk intendo quello fatto di creste, chiodo e jeans strappati, mi riferisco alla Hellcat Records, piccola divisione della lungimirante Epitaph che, fin dai primi anni ’90, scende in strada ad accogliere le più squinternate e ruvide band del circondario.Non sono certo una nuova scoperta i Left Alone, fedeli alla famiglia Hellcat ormai da quattro anni e già al terzo full-length con questo self-titled “Left Alone” (per l’appunto).

E’ inutile tentare di non essere ripetitivi, “Left Alone” è un disco puramente punk, con quello stile D.I.Y. che trasuda sudore e spontaneità proprio come insegnano gli immortali Rancid o i Clash, gli Operation Ivy o ancora gli Street Dogs. Già il titolo del singolo “Bombs Away” la dice lunga sull’aspetto musicale e socio-culturale di questo quartetto californiano che si differenzia un minimo dai loro precursori grazie all’inserto di tastiere e organo, ma non fatevi strane illusioni, questo non intacca minimamente il loro sapore old-school, li devia anzi verso accostamenti quali Slackers e Mustard Plug.
L’album contiene quindici canzoni, tutte neanche a dirlo immediate e di breve durata, in certi casi attorno al minuto “Self Made”, “Do The Depression” io anche sotto con la strumentale “Intermission”.
Di certo non siamo di fronte a nessun pilastro della storia della musica, ma questa pretesa non credo abbia mai sfiorato le menti dei Left Alone, sicuramente a loro agio tra birre, pin-up e piccoli club formato garage.
Nostalgici e tradizionalisti fatevi avanti, qui c’è pane per i vostri denti!


Continua a leggere...

mercoledì 11 novembre 2009

THE CAMP HOURS - Wise As A Tree

Vacation House - 2009
Prog Rock (insulso)
Da 1 a 10: Lasciamo perdere (3)

Articolo di: cece

Gli italianissimi The Camp Hours nascono nel 2007 dalla mente del musicista-poeta-tuttofare Carlo di Buono. Parto subito in maniera schietta e decisa nel recensire il loro disco “Wise As A Tree” che, non so per quale losco motivo, ha suscitato l’interesse della Vacation House Records debuttando così nel 2009 con quella che si può tranquillamente definire la peggiore uscita dell’anno per l’etichetta di casa nostra.

Il trio, sulla carta, dovrebbe proporre un indie-rock di matrice americana anni 70-80 ma, quello che ne esce, è un orribile miscuglio di progressive-rock, indie e atmosfere sixties con un tocco di epic-rock per guastare ancora di più una pietanza già sufficientemente indigesta.
Allievi di inavvicinabili mastri quali Pink Floyd, Pavement, Pixies e diciamo pure Beatles, i The Camp Hours, non me ne vogliano, svolgono il ruolo dell’alunno che s’impegna ma non ottiene nessun risultato neppure dopo tanto tempo speso nello studio, per questo da una parte mi dispiace bocciarli senza indugio ma, tenendo conto anche della terrificante pronuncia di una specie sconosciuta di lingua inglese, mi vedo costretto a sfoderare la penna rossa ed il voto sarà ben difficile da recuperare… Per concludere, dato che non indosso affatto le vesti di un maestro, lascio che sia qualche estimatore del suono prog-rock a valutare i The Camp Hours ed il suddetto album “Wise As A Tree” e chissà, magari se la cavano con qualche debito formativo.


Continua a leggere...

martedì 10 novembre 2009

SYMBOLYC – Engraved Flesh


My Kingdom - 2009
Technical Death Metal (con riferimenti indovinate a chi?)
Da 1 a 10: Che botta! (9)
Articolo di: Michele Marinel

Oh cazzo, un album di death metal tecnico come Satana comanda!!!
Il combo napoletano dichiara fin dal suo nome il proprio amore per i Death del compianto Chuck Schuldiner dei quali Symbolic è uno dei massimi capolavori, se non IL capolavoro. Nonostante la sincera devozione i nostri però non si spiaggiano come balene su stilemi consunti, cercando invece di trovare una propria identità e dimensione.


Lo stile dei Symbolic così si piazza di diritto nell'ambito del death metal più tecnico, ma si spoglia di tanti orpelli per andare al succo della questione. Stiamo parlando di death metal? E death metal dev'essere. Feroce, cattivo, in buona parte anche diretto, mica roba da pipparoli. I riff sono articolati, ma mai cervellotici, le ritmiche serrate tendono a trascinare in avanti composizioni che marciano come un treno in corsa.
Il lavoro dei due chitarristi è davvero notevole, quadrato e massiccio quello ritmico di Sossio Aversana, assolutamente di gusto eccellente quello solista di Alessandro Mormile, capace di cesellare assoli melodici e accattivanti ma mai scontati o ruffiani.
Le vocals di Diego Laino sono acide e aggressive al punto giusto anche se forse un po' troppo monocordi in alcuni tratti, ma c'è spazio per crescere.
Il punto di forza della band partenopea comunque è la capacità di fondere in maniera del tutto omogenea la scuola death più tecnica con quella più tradizionale, riuscendo a unire parti piuttosto complesse con altre molto groovy e coinvolgenti.
Un equilibrio non facile, ma che i Symbolyc riescono a raggiungere alla perfezione, una capacit che spero non venga mai a mancargli.
Tanto di cappello.

Continua a leggere...

lunedì 9 novembre 2009

SUICIDAL ANGELS - Sanctify The Darkness



Nuclear Blast - 2009
Thrash Metal (Thrash a go go!)
Da 1 a 10: Grande conferma (8)
Articolo di: Davide Pozzi

Secondo lavoro per i thrasher Suicidal Angels, band Greca che si era fatta conoscere due anni fa con il debut-album “Eternal Domination”, discreto lavoro pieno di buone intenzioni e parecchi spunti interessanti. Cominciamo subito con il dire che le aspettative suscitate dal disco precedente vengono ampiamente soddisfatte in questo nuovo “Sanctify The Darkness”, disco davvero ben confezionato caratterizzato da un thrash metal di ottima fattura pesantemente influenzato dalle grandi band europee portabandiera del genere sopra citato come Kreator e Destruction.

Fatta questa premessa è logico dunque attendersi brani diretti e veloci quanto mai, costruiti su riff pesanti conditi da numerosi assoli tipici del genere, sollecitati da un lavoro al basso e dietro le pelli votato al massacro, il tutto esaltato dalle grida del singer Nick Melissourgos. Pur preferendo la corrente americana del thrash metal, è impossibile non riconoscere i meriti dei Suicidal Angels; brani come “Bloodthirsty”, “Apokathilosis”, “Lies”, “No More Than Illusion” o la spettacolare “Atheist” hanno lo stesso effetto di una cannonata e sono solo alcuni esempi della maturità compositiva raggiunta dalla band greca in soli due anni, che oltre a mettere in chiaro il totale menefreghismo verso qualsiasi compromesso (e che dio li benedica per questo) dimostrano anche una grande attitudine verso il genere proposto. Insomma dieci brani più una breve track strumentale che conquistano fin dal primo ascolto e che fanno intuire le fantastiche battaglie che si consumeranno on stage lungo il tour che promuoverà quest’ottimo “Sanctify The Darkness”. Decisamente consigliati.

Continua a leggere...

DEAD RETURN – Scars Of Time


Graves Records - 2009
Avolteritornanocore
Da 1 a 10: Saporito (8)
Articolo di: Michele Marinel

A guardare il disco, la grafica, a leggere i titoli dei brani, i Dead Return potrebbero sembrare l'ennesimo gruppo goth core che ha saltato a più pari i Misfits e si è fiondato a copiare direttamente gli ultimi, inutili, AFI. Vi rassicuro subito: così non è, anzi!


La band di Bolzano si ammanta di un'estetica goth nelle grafiche e nei testi e da quella frangia dell'hardcore punk pende certe melodie e certe atmosfere, ma l'impianto dei brani è profondamente tradizionalista, hardcore senza compromessi, senza fronzoli, diretto e abrasivo, con voce urlata e tanti, tanti cori.
I riferimenti sono quelli classici del primo straight edge, dei Gorilla Biscuits e degli Youth Of Today, passando poi all'hardcore vecchia scuola che ha attraversato gli anni novanta con i primi Ignite e Better Than A Thousand, arrivando fino ad oggi con band come Get Up Kids e With Honour. Tutti rimandi che troviamo tanto nel booklet alla voce ispirazioni quanto nei vari brani caratterizzati da tempi serrati e da ottimi rallentamenti, pesacando qua e là anche delle belle melodie ed un fare graffiante che mi ha ricordato sì gli AFI, ma quelli della prima ora, quelli dannatamente bravi. In ogni caso i nostri non sono una band che fa del copia/incolla un'arte, sono un gruppo hardcore, puro e semplice, in questo sta la loro forza come il loro limite, dato da un genere che, preso così com'è, non lascia grossi spazzi alla sperimentazione, ma è così che lo vogliamo, veloce, arrabbiato, con un velo d'angoscia e tanta voglia di rivalsa.
I Dead Return sono un'ottima hardocore band e se siete dei fan del genere non potrete che apprezzarli.


Continua a leggere...

domenica 8 novembre 2009

MARDUK - Wormwood



Regain Records - 2009
Black Metal (i Marduk sono davvero tornati!)
Da 1 a 10: Incoraggiante, si può guardare al futuro (8)
Articolo di: Simone "M1" Landi

E al terzo album Marduk risorse contro le previsioni degli oracoli babilonesi... Avete letto bene, se con i due dischi precedenti avevamo notato gli svedesi smuoversi da un torpore compositivo che li accompagnava sin dai tempi immediatamente successivi al pluri-acclamato "Panzer Division Marduk", con "Wormwood" abbiamo finalmente tra le mani un album vario ma organico, apice dell'era Mortuus.

Morgan ha ritrovato finalmente l'ispirazione, coadiuvato anche dal buon Mortuus e dalla sua esperienza con i Funeral Mist, collaborazione questa che permette di avere brani che suonano freschi, dinamici, non slegati come apparivano quelli di "Rom 5:12" e meno dispersivi. Addio quindi al riciclo delle vecchie idee nei brani più veloci, le classiche fucilate sono ancora presenti ma più ricche ed elaborate, filtrate attraverso un'ottica oscura che pervade l'intero disco e che sfocia in lidi affini quasi al doom. Anche l'usuale pezzo ambient, posto a metà tracklist dal titolo "Unclosing The Curse" è riuscito ad essere digerito dal sottoscritto evitando lo skip in automatico, sintomo questo dell'ottimo lavoro svolto dalla compagine scandinava. A tutto questo va aggiunta l'ennesima strepitosa prova dietro il microfono di Mortuus che dimostra ancora una volta, caso mai ce ne fosse bisogno, di essere un interprete straordinario per vivacità e "recitazione", uno dei migliori in ambito black metal. Va sottolineato infine l'utilizzo di melodie non tipicamente svedesi in un brano come "Whorecrown" sinonimo di un allargamento di vedute per i Marduk che non può che far ben sperare anche per il futuro. "Wormwood" quindi è un album da avere assolutamente se siete fan incalliti e che merita grossa considerazione anche da parte di chi si era allontanato dal combo diverso tempo addietro, 100% Marduk ma ispirato e con qualche sprazzo di novità

Continua a leggere...

mercoledì 4 novembre 2009

LEWD ACTS - Black Eye Blues

Deathwish Inc - 2009
Punk Hardcore (di sicuro non per conciliare il sonno)
Da 1 a 10: 8 (non lasciamolo passare inosservato!)
Articolo di: Martina d'Errico

I Lewd Acts non sono persone che scherzano, questo è meglio saperlo fin da subito. Una volta che inizierete ad ascoltare il loro nuovo cd verrete investiti da un muro sonoro di rabbia tramutata in punk - hardcore di ottima fattura. Per una volta infatti, l'ira viene usata come propulsore per una musica più potente e più espressiva, invece che essere espressa solo tramite urla buttate a caso e parti strumentali senza nè capo nè coda. 

A differenza di questi esperimenti malriusciti, il gruppo californiano è riuscito a "gestire" a suo vantaggio la rabbia che sente nei confronti del mondo, sfruttandola come già accennato per creare canzoni potenti, rabbiose e personali."Black Eye Blues" è composto da undici pezzi, accomunati dalla voce graffiante di Tylure e da ritmiche travolgenti tipicamente punk, mentre la corposità dei suoni, la loro maestosità quasi "solida" viene presa in prestito dal metal, producendo canzoni bellissime come "Nightcrawlers", "Penmanship Sailed" e "I Don't Need You". C'è spazio anche per un mini episodio malinconico e funereo come "Who Knew The West Coast Could Be So Cold?" (peccato davvero l'esigua durata). Il piatto forte è però caratterizzato dal brano di chiusura "Nowhere To Go", dove troviamo tutte le diverse sfaccettature del gruppo fino ad ora descritte, quasi a riassumere l'album."Black Eye Blues" merita molto più di un ascolto, poichè inizialmente si viene colpiti soprattutto dalla veste hardcore mentre le altre qualità si scoprono poco alla volta, caratteristica che lo rende un disco destinato a durare nel tempo.

Continua a leggere...

KISS – Sonic Boom



Roadrunner - 2009
Painted hard rock
Da 1 a 10: The circus is back in town (7)
Articolo di: Michele Marinel

You want the best, you got the Kiss!
Chi nota una nota polemica in questo inizio di recensione non ha tutti i torti. Capiamoci subito: Sonic Boom è un bel disco, niente da dire, e i fan dei Kiss lo ameranno, ma tutto l'incenso che gli è stato buttato addosso è stata un'esagerazione.
Ok, Psycho Cyrcus non era stata quella perla che ci si poteva aspettare e undici anni di attesa avevano fatto salire a tal punto il desiderio dei sostenitori della band che al momento dell'annuncio dell'uscita di questo nuovo album credo ci sia stato un episodio più unico che raro di eiaculazione precoce collettiva.

Sorvolando sul fatto che per il sottoscritto i Kiss, quelli veri, quelli che hanno il diritto di portare i costumi, sono e resteranno sempre e solo quelli con Peter Criss ed Ace Frehley, la nuova edizione della Simmons & Stanley spa rispolvera sfacciatamente lo stile classico dei Kiss, quello degli anni '70, con un sound più moderno però che ricorda la decade successiva, ma ovviamente attualizzato al tempo presente.
Risultato? Un bel disco di hard rock scritto e suonato con classe. Inappuntabile la performance di ogni musicista, con un Tommy Thayer che fa la sua porca figura e un Eric Singer che supporta ottimamente le composizioni dei due grandi vecchi.
Gene Simmons e Paul Stanley scrivono ancora pezzi dal gran tiro, puro rock'n'roll che si vena di cupo blues nelle parti più rallentate, ma davvero trascinante negli up tempos.
Terminati i complimenti però bisogna anche ammettere che i Kiss tutte queste cose le hanno già fatte trent'anni fa e meglio di così. Bisogna ammettere che qua e là si ha un inquietante senso di deja-vù per autocitazione o citazione altrui (Poison, Aerosmith...). Sarà che gli standar rock'n'roll dopo un po' si tendono a ripetere, ma l'effetto collaterale è anche questo.
Ribadissco: Sonic Boom è un buon disco, da ascoltare e da cantare anche sotto la doccia o mentre si è intrappolati nel traffico, ma è lungi dall'essere un capolavoro.

Continua a leggere...

martedì 3 novembre 2009

TARDIVE DYSKINESIA - The Sea Of See Through Skins

Coroner Records - 2009
Math-metal
Da 1 a 10: dov'è che vanno le H in 'Meshuggah'? (7)
Articolo di: Enrico De Domeneghi

Facile. I Tardive Dyskinesia, solida combo greca dedita alla bella arte del metal più spigoloso e sinistro, sarebbero sicuramente stati spartani. Una buona seconda tappa sotto l'ala Coroner per loro, che pur senza disdegnare influenze altre, piantano le radici in un terreno che è praticamente un sotto genere: il suolo Meshuggah. Lo fanno in maniera cosciente, però, e vuoi quando il parallelismo è evidente -vedi assolo di 'Dog'-, vuoi quando l'impatto sfiora più un post-hc abbastanza personale e variegato nelle sue componenti, la sensazione che rimane è che la lezione sia stata, più che copiata, assimilata in profondità.

Tecnicamente il quintetto è ben preparato e sicuro delle sue potenzialità; ne è prova una sequenza di pezzi la cui lunghezza non scende mai sotto i quattro minuti. Canzoni quasi sempre ben sviluppate, oltrettutto, che mettono in evidenza un songwriting maturo quanto basta, con buoni cambi di umore nello sviluppo globale dell'album. Nessuna violenza sonora fine a se stessa, quindi, perchè ogni stoccata che i Tardive Dyskinesia mettono in campo pare essere preparata con cura, curata nel dettaglio. E così dai predominanti labirinti matematici cari ai Meshuggah spuntano echi degli Esoteric di 'Ram-faced Boy' nella seconda traccia, fino ad aperture melodiche mai scontate che richiamano la vecchia scuola post e riportano alla mente quell'atmosfera tetra che i Botch e i Breach più pesanti hanno saputo masticare in passato. Ben riuscita anche la settima traccia strumentale 'Ask E Sea', che avvolge l'ascoltatore con un riff paralizzante di sapore The Acacia Strain (Wanna see a fucking circle pit? Ecco fatto! nda).
Da segnalare anche una buona prova vocale da parte del cantante/chitarrista, capace di incastonare le lyrics in strutture dispari senza apparenti difficoltà, e credetemi, a volte l'impressione è che il nostro sia stato un instancabile giocatore di tetris in gioventù. Il suo screaming, timbricamente vicino a quello di Joe Duplantier dei Gojira, è tutto sommato convincente e non stanca l'orecchio dell'ascoltatore, già di per se' concentrato sul dare una logica all'intreccio strumentale dei brani.
Derivativi solo in apparenza, questi greci fanno ben sperare per il futuro, e hanno senza dubbio un merito: quello di aver digerito e sintetizzato la scuola Meshuggah sfornando un prodotto carico della tradizionale furia obliqua dei capiscuola, ma di più facile ascolto.

Continua a leggere...

HATEBREED – Hatebreed



Roadrunner - 2009
Metalcore (ignorante e cafone)
Da 1 a 10: Bella mazzata (8)
Articolo di: Michele Marinel

Ignoranza, cafonaggine e una paccata di intransigenza hanno da sempre costituito il marchio di fabbrica degli Hatebreed. Questo quinto album della loro carriera (se escludiamo dal conto mini, split e il recente album di cover For The Lions) non fa eccezione, sebbene bisogna ammettere che l'intransigenza hardcore lascia in parte il passo a un flirt neanche tanto celato con le aspirazioni metal della band di New Haven.

Se fin dall'inizio Jamie Jasta e soci occhieggiano ai padrini Slayer (non a caso il loro album di cover si apriva con la cover di Ghost Of War) i nostri in più punti sfoggiano un riffing meno monolitico e più vario nonché qualche linea solista che una volta non si sarebbero nemmeno immaginati, prendendo ispirazione com'è ovvio dal sottogenere heavy metal più vicino all'hardcore, cioè il thrash.
Un indebolimento dell'identità degli Hatebreed? Nemmeno per sogno, invece una naturale evoluzione di certi elementi già riscontrati nei precedenti lavori e mai sviluppati a dovere.
Intendiamoci, non è che i nostri beniamini si mettano a sfoggiare chissà quali doti da virtuosi, lo scopo è sempre quello di colpire il più forte possibile e nella maniera più immediata, ma invece che basare tutto sull'attacco frontale la band questa volta sa anche lavorare ai fianchi, alternando sfuriate thrash core a momenti più cadenzati da furioso headbanging e osando qua e là anche qualche approccio inedito. E proprio inedite sono le velleità di singer dell'urlatore Jasta che in alcuni frangenti tenta un approccio per così dire melodico. Niente paura però, il nostro sotto la bandana non nasconde certo una fluente frangia e il suo stile è fortemente radicato nella tradizione hardcore, emblematico nel pre-chorus di In Ashes They Shall Reap come nei cori di No Halo For The Heartless, elementi nei quali qualcuno ha intravisto, in maniera piuttosto miope, uno strizzar d'occhio a cose più commerciale, laddove è invece un recupero di elementi veramente old school.
Il risultato non è sempre eccellente, Jasta è un ottimo screamer ma come singer deve ancora fare molta strada, ad ogni modo questo Hatebreed è probabilmente il lavoro più vario e intrigante pubblicato dalla band americana, un modo intelligente di rendere il proprio suono più appetibile senza per questo svendersi.

Continua a leggere...

lunedì 2 novembre 2009

NILE - Those Whom The Gods Detest



Nuclear Blast - 2009
Death Metal (quello vero!)
Da 1 a 10: Monumentale (9)
Articolo di: Davide Pozzi

Ritorno sulle scene per gli americani Nile, realtà technical death metal fra le più stimate ed apprezzate dell’intero panorama, questo grazie a cinque dischi di valore assoluto, dove la brutalità musicale viene esaltata da una tecnica senza precedenti. Fin dagli esordi nel lontano 1998 con l’album "Amongst The Catacombs Of Nephren-Ka", i Nile hanno sbaragliato la concorrenza grazie allo sconvolgente mix di death metal ed elementi musicali mediorientali, con un songwriting pesantemente influenzato dalla storia antica in particolare quella dell’Antico Egitto.

A due anni di distanza dal notevole “Ithyphallic” esce dunque questo nuovo lavoro “Those Whom The Gods Detest”, che porta avanti in maniera costante il discorso intrapreso oramai più di dieci anni fa. Com’è logico attendersi i Nile creano, anche in quest’opera, un muro sonoro impenetrabile, dove la superba voce di Karl Sanders sbatte di continuo con tutta la cattiveria possibile. Brani come “Kafir!” (davvero eccezionale), la monumentale title-track, “Permitting the Noble Dead to Descend to the Underworld” o “The Eye of Ra” sono solo esempi della caratura elevatissima di questo nuovo lavoro e veri e propri inni technical death che mettono in luce, ancora una volta, la grandezza dei Nile, unici nel loro genere, capaci di eseguire passaggi strumentali a velocità disumana senza sacrificare per un solo istante la qualità musicale al cospetto della pura violenza. La consueta scelta di avvalersi di parti mediorientali rende ogni singolo brano mistico e pieno di fascino. Anche conoscendoli da anni, non sai mai cosa potresti ascoltare il secondo successivo; in una sola parola: superlativi!

Continua a leggere...

IMMORTAL - All Shall Fall



Nuclear Blast - 2009
Metal? (più un qualunque aggettivo offensivo, fate voi)
Da 1 a 10: Plastica, tutto quello che il metal NON dovrebbe essere (3)
Articolo di: Simone "M1" Landi

"All Shall Fall": mai nome fu più profetico, anche i paladini del gelo nordico infine caddero dal trono, dopo diversi tentativi di defenestrazione avvenuti in passato ("Damned In Black", "Sons Of Northern Darkness"). Con questo ritorno si consuma ancora una volta l'inutile rito della reunion vuota, falsa, succhiasoldi. Non c'è anima nelle note di questo nuovo disco, non c'è ardore, c'è solo una sensazione di freddo ma non dovuto al gelo del black metal di Abbath, bensì allo sgradevole odore di plastica che traspira da queste sette canzoni.

Anzi di black metal non ce n'è nemmeno l'ombra in quanto le atmosfere qui presenti vorrebbero ritornare ai tempi epici di "At The Heart Of Winter" ed invece riescono solamente a sembrare una pallida copia-carbone in cui abbondano carenza di idee ed autoplagio; per non parlare dello screaming di Abbath, ormai lontanissimo parente di quello che un tempo "incantava" folle di blackster.
Partendo dalla title-track che rappresenta il male minore ed andando avanti è uno strazio continuo in un vortice di nausea che culmina con "Mount North" e "Unearthly Kingdom", brani in cui sono giunto a fatica al termine dell'ascolto per la pochezza e la noia mortale che emanano.
Sbirciando in giro per la rete fra numerosi siti sono rimasto sconvolto da come la stragrande maggioranza della critica abbia accolto positivamente "All Shall Fall" e non me ne capacito, Abbath e la Nuclear Blast (rovina di molte, troppe band ormai) con le loro produzioni standardizzate e piatte, inutili edizioni limitate e myspace scintillanti possono facilmente "adescare" giovani metallari alle prime armi, con gente che bazzica questo mondo da più tempo non dovrebbe succedere ed invece... Se amate i gruppi sinceri e genuini state alla larga da questi Immortal ed andate piuttosto a comprare "Battle In The North" o "Diabolical Fullmoon Mysticism" nel caso non fossero ancora presenti nella vostra collezione! Per qualcosa di targato 2009 invece il nome che faccio è Marduk!

Continua a leggere...

LYNYRD SKYNYRD – God & Guns



Roadrunner - 2009
Redneck Rock
Da 1 a 10: Stars and bars vecchia scuola (7)
Articolo di: Michele Marinel

Redneck di tutto il mondo unitevi! I Lynyrd Skynyrd sono tornati!
Forti di una tradizione che affonda le proprie radici nell'assolata e umida Florida della fine degli anni 60 i nostri tornano a far rullare i tamburi delle loro colt, con il buon dio al proprio fianco.

Con una line up più volte rimaneggiata tanto per opportunità quanto per necessità (viste le tragedie che accompagnano la band fin da un tragico incidente aereo nel 1977) oggi l'unico membro originale del gruppo rimane il chitarrista Gary Rossington.
God And Guns come potete ben immaginarvi non lascia troppo spazio alle sorprese, mostrandoci una band saldamente ancorata ad uno stile più che consolidato, che rimane pressochè immutato nonostante i componenti del gruppo siano cambiati nel corso degli anni. Che sia Rossington a mantenere fermamente il timone? Che sia il singer Johnny Van Zant a farlo, forse in ricordo del fratello maggiore Ronnie, primo indimenticato singer del gruppo? O forse i Lynyrd Skynyrd sono trasmutati in icona del southern rock a tal punto da trascendere i singoli componenti?
Personalmente propenderei per quest'ultima ipotesi, in fondo nessuno riuscirebbe ad immaginare la band in un contesto diverso da quello sudista americano. Punto di forza ed invalicabile limite della band, il retaggio sudista permea i solchi di questo nuovo disco esattamente come ha fatto per tutti gli album precedenti. God & Guns risulta quindi l'ennesimo capitolo di una storia già letta, ma che, diciamocela tutta, non dispiace riascoltare. I pezzi sono ovviamente strutturati su canonici stilemi hard rock, con pesanti influenze blues e country. I brani sono piacevoli, a volte malinconici, come lo sguardo di un vecchio cowboy che guarda il tramonto vedendovi riflesso il proprio declino, altri sono più carichi e vitali, come se quello stesso vecchio pistolero volesse dimostrare di non aver terminato ancora tutte le sue pallottole.
Trascinante nei brani più rockeggianti, l'album risente di qualche calo di tensione nei pezzi più lenti, ma si mantiene su buoni livelli, eccezion fatta forse per Southern Ways che sostanzialmente presenta una riscrittura del classico Sweet Home Alabama che lascia un po' perplessi.
Sorvolando sull'atteggiamento da redneck repubblicani e conservatori che trasuda dai testi della band (la title track è emblematica come anche il brano That Ain't My America), il disco si fa apprezzare pur non apportando fondamentali novità al bagaglio carrieristico degli Skynyrd.
Se non li avete mai amati continuerete a non amarli, se invece siete dei loro fan calcatevi bene in testa il vostro cappello da cowboy e preparatevi ad una lunga cavalcata.

Continua a leggere...